Turchia, agosto 2011

Sofia, 7/8/2011

Questo ritorno in Turchia 2 anni dopo mi vede transitare ancora una volta per Sofia. E non solo perché il prezzo del volo è decisamente inferiore a quello diretto per Istanbul… L’esperienza della traversata notturna in autobus o in treno dalla Bulgaria alla Turchia, i volti che si incrociano in quel viaggio e la sosta notturna nella fredda dogana a pochi chilometri da Edirne, era qualcosa che avevo voglia di rivivere. Per raggiungere la città dall’aeroporto ho dovuto cambiare 2 autobus (i taxi costano poco ma tendono a fregarti e non ho voglia di contrattare subito un prezzo col rude bulgaro di turno). Il primo era un tranquillo bus di linea che mi ha portato fino ad una fermata capolinea da dove avrei potuto scegliere fra ben 4 altri autobus. Decido ovviamente di prendere il primo che passa e nel frattempo scambio due parole nel mio inglese pessimo con la rubiconda bulgara che poc’anzi mi aveva fornito le preziose informazioni su come arrivare alla stazione (essendo scritto tutto in cirillico…). Neanche il tempo di consigliarle di contattare un buon dietologo che la tipa mi indica il bus… Una specie di furgoncino tutto scassato guidato da un brutto ceffo sulla cinquantina che mi fa salire sbuffando. Pagato il biglietto cerco di chiedere allo pseudo conducente quale fosse la fermata per la stazione… La risposta è uno sbuffo e un gesto del tipo “non mi cacare il cazzo”. Mi siedo e nel frattempo comincio a pensare come raggiungere la stazione una volta che il furgoncino bulgaro mi avrà portato fino al capolinea senza avvertirmi che dovevo scendere…. Insomma comincio a pensare a come dovrò tornare in centro una volta arrivato nella “tor pagnotta” di Sofia. Ma fortunatamente il capolinea è proprio alla stazione ferroviaria. Una volta arrivati, lo pseudo conducente mi congeda con un gesto del tipo “scendi e levati dal cazzo”. Arrivato alla biglietteria scopro che il primo treno per Istanbul è il giorno successivo alle 7 di sera… No… Non mi va di passare un giorno a Sofia. Di fronte la stazione ci sono i capolinea dei bus e fra le tante compagnie c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ne trovo uno con mini bar e wc (ormai ho un’età) che con l’equivalente di 20 euro mi fa stare a Istanbul domattina alle 6 partendo alle 22. Ho circa 3 ore per una passeggiata a Sofia, il centro è vicino. Direi che il viaggio è cominciato.

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Sofia è povera, più povera di come la ricordassi. O forse anch’essa è stata impoverita da ciò che ci fanno chiamare “crisi”. Le persone di ogni età che camminano le strade nei pressi della stazione ferroviaria hanno i lineamenti forti e i visi rugosi. Si sposano alla perfezione con gli edifici decadenti e con i tanti cani randagi che girano indisturbati per la città. E se qualcuno cominciasse a tatuare i cani, gli uomini e le bestie sarebbero difficili da distinguere. Nelle poche ore passate a Sofia prima di ripartire per Istanbul ho fatto quattro chiacchiere con la proprietaria di un market dove ho comprato dell’acqua e della cioccolata. La signora non più nel fiore dell’età conosceva qualche parola di italiano e si è fatta capire.«ho sentito da BBC di crisi economica ora anche Spagna e Italia… Noi qui sempre crisi… Si lavora e se non si lavora più si parte e si va a lavorare (risata) poi forse si ritorna… L’importante è felicità».

Sofia è più povera di come la ricordassi e le persone che popolano le sue strade somigliano ai tanti cani randagi che girano indisturbati per la città. Se non fosse per i tatuaggi che i cani non hanno.  Ma se mai un giorno quella che ci fanno chiamare “crisi” ci renderà poveri come gli abitanti di Sofia, non credo che saremo in grado di mantenere la loro stessa dignità. E la capacità di cercare umilmente la felicità.

Tratta Sofia-Istanbul, 7-8/8/2011

Speravo di poter fare un viaggio silenzioso e meditabondo (nonché cercare di dormire qualche ora), ma ciò non è stato possibile a causa di Giuan (che non è il diminutivo di Giovanni), un giovane frikkettone veneto diretto in Iran che attraverserà la Turchia in autostop. Studioso di lingue, gira in opinabili condizioni igieniche con un piccolo zaino e un mini pc dove porta le fotocopie digitalizzate di una grammatica turca e dei dizionari. Dopo aver cercato di convincermi per ore a seguirlo fino a Tehran ha capito che mi sarebbero serviti qualche giorno in più di vacanza e qualche anno in meno. Prima di cadere fra le braccia di Morfeo, mi ha promesso che mi avrebbe inviato via mail il “Bigami” della grammatica turca e il dizionario. Quando dorme non parla ma in compenso russa.

La frontiera fra la Bulgaria e la Turchia è come la ricordavo. Due ore di attesa per passare le due dogane, i primi veli al duty-free e strani pendolari di indecifrabile etnia che con poco bagaglio la attraversano a piedi e di notte. Si riparte, per fortuna quando risalgo sull’autobus Giuan ha già ripreso a dormire e a breve farò lo stesso. Di lui ricorderò gli odori forti, il fatto che alla fine di ogni frase mi diceva “capito vecchio?” (penso sia un’espressione ricorrente dello slang giovanile del nord est) e la naturalezza con cui si puliva i piedi lerci con le mani mentre mi parlava. 

Malgrado l’aria condizionata fin troppo forte l’umidità mi fa sudare e mi riesce difficile prendere sonno. Tuttavia, lentamente la stanchezza ha la meglio, almeno per qualche ora. Mi risveglio alle prime luci dell’alba, dal finestrino un paesaggio familiare fatto di migliaia di case che sembrano essere costruite l’una sull’altra, taxi e auto spericolate e rumorose, minareti che si ergono qua e la come delle piccole oasi in mezzo a uno sconfinato e anarchico delirio architettonico. Buongiorno Istanbul, non sai quanto sono felice di rivederti.   

Istanbul, 8/8/2011

Il servizio navetta della compagnia con cui ho viaggiato mi porta fino a Taksim, nel quartiere di Beyoglu. Sono nel cuore della Istanbul moderna, una zona frequentata da giovani e piena zeppa di locali e discoteche. Decido di snobbare le terrazze di Sultanhamet e pernottare qui. Saluto Giuan che prosegue il suo viaggio sulla via della seta e cerco una stanza in mezzo alla miriade di hotel e ostelli del quartiere. La stanchezza del viaggio comincia a farsi sentire, così come il bisogno di una doccia. L’hotel “Paradise”  ha i prezzi un po’ più alti della media ma è comunque abbordabile. Camera singola con bagno, frigo, tv e aria condizionata… Dopo tutte queste ore di viaggio qualche lusso non guasta.

Prelevo le mie prime lire turche e prendo la stanza. Una doccia veloce, prima di  crollare sul letto e risvegliarmi verso mezzogiorno.

Ritemprato dal riposo faccio un giro per Beyoglu, fino alla torre di Galata e poi giù fino al ponte Galata. Le stradine che scendono verso il Bosforo sono zeppe di liutai e di negozi di artigianato locale, nonché dei soliti kebabbari che ne vendono di ogni forma e tipo. Come in tutta la città i gatti girano indisturbati e in quasi ogni negozio se ne trova almeno uno. Si fanno accarezzare e grattare un po’ da tutti e molti sono in sovrappeso.  Sceso fino alla sponda orientale del ponte, mi fermo a mangiare nei pressi del mercato del pesce, in uno dei tanti fatiscenti ristoranti sulla riva del Bosforo che normalmente i turisti non frequentano per le discutibili condizioni igienico sanitarie. Ordino delle sardine fritte spezziate e dell’insalata con cipolla. Mangio in compagnia di un gatto di pochi mesi che per tutto il tempo mi si arrampica addosso cercando di rubarmi il pesce. Trovo un accordo di massima (non senza difficoltà, parla solo il turco) e gli cedo le teste e le code.

Finito il pasto con l’immancabile tè e congedatomi dal giovane felino attraverso il ponte Galata fermandomi di tanto in tanto ad osservare alcuni dei tanti pescatori più o meno improvvisati che tirano su piccoli pesci azzurri sporgendo la loro canna a mulinello dalle ringhiere. La loro tecnica è affascinante; la lenza è montata con un piombo di almeno 30 grammi e su di esso decine di piccoli ami ad una distanza di circa 10 cm l’uno dall’altro. Una montatura assai simile a quella che si usa per le lenze quando si pesca dalla barca, che vista su centinaia di canne a mulinello disposte a meno di un paio di metri di distanza fa un certo effetto. Osservando noto che le esche variano a seconda dell’esperienza e delle pretese del pescatore. C’è chi usa il verme ma con scarsi effetti, chi la mollica di pane di cui i “cefalotti” sono ghiotti e chi cozze e gamberetti. Ma i più esperti attaccano all’amo dei piccoli ramoscelli verdi e una volta calata la lenza la fanno muovere su e giù ondeggiando la canna. I ramoscelli nell’acqua simuleranno il movimento di piccoli molluschi e attireranno gli ingenui predatori che verranno tirati su a gruppi di 3 o 4 alla volta; una piccola mattanza. Alcuni di loro vendono il pescato ancora vivo direttamente sul ponte, facendosi magari aiutare dai figli o dalla moglie, altri si portano il pescato la sera a casa per la cena. Certo… Guardando giù dal ponte quell’acqua putrida e sentendo l’odore di fogna che sale, la sola idea di mangiare un pesce pescato lì fa venire il voltastomaco. Ma in fondo penso che le sardine mangiate un centinaio di metri prima non vengano da molto lontano e se sono qui a raccontarlo vuol dire che ho buone probabilità di sopravvivere.

Attraversato il ponte e mi dirigo verso il bazar egiziano. Ad essere sincero ciò che mi ha spinto a tornarvi è una specie di caciocavallo sfilacciato che viene strappato a mani nude dal venditore e pesato. Sfido la sorte e me ne faccio preparare un sacchetto (a dire il vero il tipo me ne stava dando mezzo chilo) e proseguo soddisfatto mangiando gli sfilacci come fossero pop-corn. I venditori i spezie hanno sempre il loro fascino, la loro furbizia nell’esporre i prodotti è invidiabile e sono fra i meno invadenti commercianti dei bazar. Acquisto un po’ di spezie e del te alla mela, il tutto viene preparato sotto vuoto con molta accuratezza, accetto il secondo tè della giornata offertomi come ringraziamento per l’acquisto appena fatto e risalgo verso Sultanahmet e il Gran Bazar. 

Comincio a vagare senza una meta peri cunicoli dove si vende di tutto e scelgo volutamente di non passare per la zona più turistica del gigantesco mercato. Osservo negozi e bancarelle che espongono merci incomparabili, dalla biancheria intima per donne col velo ai vestiti da festa dei bambini che vengono vestiti come Aladino in occasione della circoncisione. E poi bigiotterie di scarsa qualità, veli di ogni tipo, finta pelle in quantità impressionante, cellulari, pezzi di cellulari ecc..

I frequentatori di questa zona del bazar sono per lo più turchi o turisti che hanno la classica espressione di chi si è perso. Mi siedo sul seggiolino di una bettola a fianco di 2 anziani che giocano a blakjak e ordino dell’acqua e il solito tè… Che a dire il vero mi viene quasi estorto dal vecchio proprietario del “locale” che parla solo turco ma ha deciso che dobbiamo chiacchierare. Con una certa fatica lo saluto e lo ringrazio con “tesekkür ederim” che è l’unica parola turca che so e vuol dire “grazie”, ma quando la dico mi sento un figo.

Scendo nella parte più turistica e patinata del bazar cercando qualche bell’anello da aggiungere alla mia collezione. Purtroppo dopo aver girato un bel po’ per la zona dei gioiellieri, non trovo nulla di decente a un prezzo ragionevole. Una scena singolare attrae però la mia attenzione: decine di uomini armati di uno o più cellulari si gridano addosso delle cose, scrivono su un taccuino e parlano al telefono comunicando quello che hanno scritto. Quando uno finisce l’altro sembra rilanciare… Sarà mica la borsa di Istanbul? O forse sono scommesse clandestine? Domande che non troveranno risposta… Mi riprometto di cercare su google qualche informazione in merito.

Decido così di attraversare nuovamente il ponte di Galata per raggiungere la mia prossima meta: lo “Yesildirek Hamami”. Qui a dire il vero ha prevalso la mia curiosità morbosa verso i luoghi della perdizione. La guida citava infatti questo hammam come uno dei pochi ritrovi di omosessuali turchi e non solo. Ovviamente si raccomanda discrezione, qui non c’è molta tolleranza… E io raccomando a me stesso di battere ritirata qualora la situazione degenerasse troppo, onde evitare la perdita non voluta di una certa verginità che conservo e tutelo con cura.

Una volta arrivato, ammiro subito la bellezza della struttura. Si tratta infatti di uno dei più antichi hammam della città e si vede. Le stanzette in legno e il marmo bianco uniti all’odore forte di acqua di colonia mi fanno pensare per un attimo di essere tornato indietro nel tempo, fino a quando la voce del rubicondo proprietario che mi porge panni e saponetta mi riporta al presente. Un presente in cui l’obiettivo è “osservare restando integri”. Mi cambio ed entro subito nella sikaklik (sala del vapore) e giro furtivo per le stanzette meditando un eventuale piano di fuga, ma la situazione è più tranquilla di quanto pensassi. Oltre a me ci sono circa una dozzina di altri avventori, per lo più turchi e un paio di “coppie” europee. L’unica scena degna di nota è un signore sulla cinquantina che osserva un giovane e biondissimo ragazzo nordico che si lava, ravanandosi (voce del verbo ravanare) l’arnese sotto il panno. 

Mi sdraio e osservo le magnifiche volte ottomane e i fasci di luce che entrano dagli oblò. Dopo qualche minuto mi sento chiamare da uno dei tipi che avevo visto all’entrata che mi propone uno scrub con massaggio. Nella pausa fra la domanda e la risposta, nella mia testa cominciano a rullare pensieri più o meno in questo modo: “e se poi allunga troppo le mani e vuole fare altro?… Beh basta dirgli di no!… E poi lui è uno che lavora qui, perché se la dovrebbe rischiare in questo modo?… Certo il massaggio lo ricordo bellissimo ma farlo qui forse è un po’ rischioso…. Che faccio?… La faccia del tipo è rassicurante e poi cavolo, potrebbe essere mio padre… Anzi ci assomiglia pure… Mmmm… Quest’ultima immagine non depone a suo favore… Vabbé… Mi fido…. Lo faccio”.

Lo scrub e il massaggio molto energico mi riportano in vita, il signore non attenta alle mie virtù ma si diverte a farmi scricchiolare tutte le vertebre ridendo con il viso pacioccoso ad ogni rumore delle mie malconce articolazioni. Uscito nell’androne mi viene massaggiato il collo con l’acqua di colonia (da un altro tipo sulla cinquantina comparso dal nulla) e ovviamente mi viene offerto l’immancabile tè… Che se continuano così stanotte comincerò a roteare come un sufi per le vie di Beyoglu. Esco dall’hammam felice per il trattamento e per le virtù conservate e un po’ deluso perché non potrò raccontare di aver visto scene di sodomia su lastre di marmo secolari con in sottofondo il canto del muezzin “Allahu Akbar”.

Tornato in strada decido di proseguire sulla scia “gay friendly” e di andare in un locale che si trova in una traversa di Istikâl Caddesi, per capire dove ascoltare un po’ di musica facendomi consigliare dai gay che di solito la sanno lunga in materia. Ma arrivato sul posto (che poi si trova a due traverse di distanza dalla via dell’hotel) non trovo molte persone e quelle che trovo sono poco socievoli. Non deve essere facile essere pubblicamente gay in un paese come la Turchia, ma quelli che ho trovato sono pure un po’ sfigati. Cerco di farmi dire dal cameriere del locale dove trovare un po’ di movimento ma il suo inglese è peggio del mio (quindi nullo) e a gesti mi fa capire più o meno che girando per le vie limitrofe qualcosa avrei trovato. Prima di salutarci mi chiede di togliermi il cappello per vedermi meglio, io lo faccio e lui fa una specie di gesto di apprezzamento. In risposta sfodero il mio “tesekkür ederim” e lo saluto.

Individuato a grandi linee il posto dove bere, cerco un posto dove mangiare qualcosa… La fame comincia a farsi sentire. Noto una tavola calda self service con una lunga fila di turchi e mi ci fiondo come un rapace. Mangio kebab di agnello con patatine condito con abbondanti salse, riso e insalata di pomodori e cipolle. Mi bevo anche il tipico bibitone bianco a base di yogurt acido per sentirmi turco al 100%. Finita la cena accuso una certa stanchezza, ma non rinuncio a una birra a pochi passi dall’albergo in uno dei tanti pub di Beyoglu… È stata una giornata lunga, è ora di riposare.

Istanbul, 9/8/2011

Mi sveglio con comodo mezzogiorno e decido di imbarcarmi per il quartiere di Kadiköy, sulla sponda asiatica. La guida parla molto bene delle stradine che si arrampicano sulla collina e del mercato ortofrutticolo di quello che una volta veniva chiamato “villaggio del giudice”. Il traghetto che porta a Kadiköy passa di fronte alla stazione di Haydarpasa, una mia vecchia conoscenza… È da lì che presi il treno per Kayseri due anni fa. Il palazzo di quella che è la stazione orientale di Istanbul è meraviglioso, si erge sulle acque del Bosforo e dà l’idea di una frontiera, superata la quale viaggi verso un altro mondo. In effetti un po’ lo è… Quando metti piede su quella sponda sei in Asia.

Mentre Haydarpasa mi passa davanti mi viene in mente che dovrei decidere la prossima tappa del viaggio… A dire il vero l’idea è quella di andare a Konya, magari viaggiando in treno di notte. Due anni fa ci feci scalo per poche ore ma non riuscii a vederla, forse è venuto il momento di rendere omaggio alla tomba di Mevlana nella città sacra dei dervisci rotanti. Decido quindi di passare per Haydarpasa tornando da Kadiköy, a piedi sono 15 minuti circa di passeggiata in riva al Bosforo.

I banchi del mercato di Kadiköy in effetti sono molto caratteristici, ho la fortuna di attraversare le stradine nel giorno del mercato del pesce. Le scene ricordano vagamente quelle del mercato di Via Foria a Napoli, con la differenza che i turchi sono un po’ meno rumorosi e presentano la merce in maniera decisamente migliore.

Ma una caratteristica del quartiere di Kadiköy che la guida quasi ignora è la quantità di pub e locali che presentano musica dal vivo, nonché l’enorme quantità di negozi di dischi, fumetti e laboratori  di tatoo. È un quartiere frequentato da giovani come Beyoglu, ma più… Frikkettone. Mi siedo in un pub e comincio a parlare con uno spagnolo che mi invita ad assistere al suo concerto la sera stessa in quel locale, gli faccio credere che se non fossi partito per Konya la sera stessa sarei stato in prima fila. Mi becco così una specie di volantino con le date dei suoi concerti in giro per la Turchia… Vuole proprio che lo vada a sentire. Lasciato il pub e il musicista iberico, passeggio fino alla stazione di Haydarpasa rischiando di essere investito almeno un paio di volte al capolinea delle linee di minibus. Una terribile caratteristica dei turchi è quella di guidare da criminali e di usare il clacson quando non serve. E detto da un napoletano fa un certo effetto. 

Arrivato alla stazione leggo che c’è un treno per Konya alle 23.30 con arrivo il giorno dopo a mezzogiorno. Mi sembra una soluzione perfetta e compro il biglietto. Visto il prezzo ragionevole e l’età non più da ragazzino mi prendo una cuccetta; i treni turchi sono pochi e lenti ma quelli che ci sono hanno tutti i comfort e un servizio impeccabile. Mi imbarco e torno a Beyoglu per recuperare lo zaino e mangiare qualcosa. Mi fermo in uno dei tanti “kebabbari” e ne provo uno che mi sembra diverso dagli altri. In effetti è spezziato in modo assai diverso rispetto al solito… Molto buono, ci tornerò quando ripasserò per Istanbul al ritorno.

Finito il breve pasto proseguo sulla strada e intravedo un piccolo hammam senza grosse pretese, ne approfitto per darmi una lavata e cambiarmi. Il posto è molto spatrtano ma pulito. Nulla a che vedere con il fascino dello “Yesildirek Hamami”, niente volte e un arredamento moderno, ma il servizio è impeccabile. Esco lavato e profumato e vado a prendere lo zaino; ho ancora un’ora e mezza di tempo e mi dirigo con molta calma all’imbarco del traghetto. Per fortuna trovo subito un traghetto che fa scalo alla stazione, non dovrò rischiare di nuovo la vita al parcheggio dei mini bus. Il treno è già in stazione con molto anticipo e ne approfitto per salire subito in carrozza e sistemare tutte le cose; la cuccetta ha il frigo, il lavabo, l’aria condizionata (fin troppo forte a dire il vero) e la presa per caricare cellulari e iPad. Mi siedo e comincio a leggere e scrivere, nel frattempo l’addetto del vagone mi porta 2 succhi di frutta, 2 merendine e dell’acqua. Il treno parte in perfetto orario, le luci di Istanbul scorrono via velocemente. Do uno sguardo all’immensa periferia della città in continua espansione; case e grattacieli in costruzione che saranno finiti nel giro di pochi mesi e continueranno a cambiare questo paesaggio in continuo mutamento. Sembra quasi il destino di questa immensa città.

Continuo a leggere e scrivere per un paio d’ore, cambio pezzi del racconto che sto ultimando, trovo il posto dove dormire a Konya e quando il treno rallenta in prossimità dei paesini sulla linea ferroviaria mi soffermo a osservare le luci e le persone che li popolano.

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Anche questa volta Istanbul mi ha rigenerato l’animo. Sarà il bombardamento di luci, suoni e odori, saranno i fasci di luce che entrano dagli oblò degli hammam, saranno i tanti quadretti a cui ho assistito e le persone con cui ho parlato. Uno in particolare mi  rimarrà  impresso; quando osservando i pescatori sul ponte di Galata mi sono soffermato su un’insolita gara fra padre e figlio a chi tirava su più pesci ad ogni calata. In due avevano fatto una strage. Anche questo è Istanbul, il ritorno alle origini delle cose e alla loro funzione originaria, le montature delle lenze pensate per turar su tanto pesce e non per un solo grande pesce, la sostanza che prende il sopravvento sull’immagine, il vero che vince sul falso. Difficile non farsi catturare da un luogo così mutevole, sempre in continuo movimento, pervaso da un’innata frenesia. Istanbul è un enorme mercato rumoroso, ma anche il senso di pace che ti da il Bosforo al tramonto. Quando lo osservi e con la mente cominci a navigare con lo sguardo rivolto a ovest, verso le tue coste, verso i tuoi ricordi. Nei giorni del ramadan immense tavolate di parenti aspettano in religioso silenzio il canto del muezzin per cominciare a mangiare e in questi giorni al calar della sera si festeggia nelle piazze dei paesi e delle città. Sulle terrazze di Istanbul l’effetto di quegli attimi è amplificato e difficilmente descrivibile. Se un giorno avrò la possibilità di ritirarmi a vita migliore probabilmente mi si dovrà cercare in qualche vicolo di di questa che più che una città sembra un enorme essere vivente. Magari sarò nella zona del mercato del ferro o in quella dei liutai. Non sarà facile trovarmi perché probabilmente sarò lì per perdermi. Per ritrovare me stesso.

Konya, 10/8/2011

La stazione ferroviaria di Konya è un cantiere aperto. Anche questa piccola città nel cuore della Turchia sta vivendo il suo momento di espansione. Gli ultimi chilometri di traversata in treno passano per i nuovi quartieri in costruzione e quelli già finiti. Malgrado la quantità eccessiva di cemento il risultato è tutto sommato gradevole… Altro che alcune cagate che si costruiscono in Italia…

Arrivo a piedi nel centro facendomi guidare un po’ a gesti da due ragazze del posto che portano rigorosamente il velo. A Konya sono molto tradizionalisti. Le due giovani studiano al conservatorio, percorriamo un lungo pezzo di strada insieme e cercano di spiegarmi come è fatta la città. Fingo di capire molto più di quello che ho capito e dopo aver sfoderato il solito “tesekkür ederim” e mi dirigo verso l’hotel. Il proprietario quando arrivo indossa un paio di mutandoni grignolini che non vedevo dai tempi di mio nonno… Prima di venire ad aprirmi si mette un paio di pantaloni e mi accoglie con un sorriso imbarazzato. La camera costa poco e il premuroso albergatore mi fornisce anche una fotocopia con una cartina della città dove sono indicati i punti di maggiore interesse. Ma la mia meta è l’antico convento dei dervisci rotanti e la tomba di Mevlana. La figura di questo poeta mistico mi ha sempre affascinato, così come l’ordine monacale da lui fondato. Purtroppo l’antico monastero è ormai un museo e i dervisci non ci sono più… La rivoluzione laica di Atatürk ha modernizzato la Turchia ma ha anche annientato molte espressioni culturali e religiose minori come quella dei sufi. Resta comunque forte l’effetto quando si entra nella stanza delle sepolture. Il feretro del grande maestro dei dervisci è il più grande e sovrasta la sala. Uomini e donne si fermano di fronte ad esso e pregano con i palmi delle mani rivolti verso l’alto. Mi viene spontaneo accennare un inchino con le braccia giunte sul corpo come usavano fare i monaci danzatori. Rimango lì qualche minuto e mi tornano alla mente le poesie di Mevlana rilette la sera prima in treno.

L’amore è sconsiderato
L’amore è sconsiderato, non così la ragione.
La ragione cerca il proprio vantaggio.
L’amore è impetuoso, brucia sé stesso, indomito.
Pure in mezzo al dolore,
l’amore avanza come una macina;
dura la sua superficie, procede diritto.
Morto all’egoismo,
rischia tutto senza chiedere niente.
Può giocarsi e perdere ogni dono elargito da Dio.
Senza motivo, Dio ci diede l’essere,
senza motivo rendiglielo.
Mettere in gioco se stessi e perdersi
è al di là di qualcunque religione.
La religione cerca grazie e favori,
ma coloro che li rischiano e li perdono
sono i favoriti di Dio:
non mettono Dio alla prova
né bussano alla porta di guadagno e perdita.
(Mevlana Jalaluddin Rumi)

Torno in hotel per riposare qualche ora, Konya è molto calda e ho camminato molto. Una doccia e un po’ di riposo mi faranno bene.

Mi risveglio nel tardo pomeriggio e vado a fare un giro per la cittadina. È impressionante vedere donne di tutte le età camminare con il velo e vestitissime, con dei lunghi impermeabili che ricordano dei “burberry”. Li portano a tutte le ore, giorno e notte… Con questo caldo non riesco a capacitarmi di come possano fare.

Mangio in un posto consigliato dalla guida, la specialità della casa è carne di agnello cucinata in una specie di coccio, devo dire molto buona. Per cominciare aspetto come tutti il canto del muezzin e finita la cena cerco un posto dove passare la serata.

La città è sede di un’importante università turca e del conservatorio, di conseguenza la sera i giovani si ritrovano nei locali dove bevono analcolici e tè fumando il nargilé. 

Arrivato in uno di questi locali con terrazza, comincio ad accarezzare un cucciolo di gatto quando sento delle voci alle mie spalle che mi chiamano. Un gruppo di ragazzi è seduto su dei cuscini posti a divanetto e alcuni di loro mi fanno cenno di unirmi alla comitiva. Due di loro parlano un pessimo inglese paragonabile al mio e fanno da interpreti per gli altri. Capisco che il gatto è di uno di loro, mi raccontano della loro vita e di quanto sia noiosa la vita a Konya. Il loro mito è Antalya, una città sulla costa mediterranea piena di discoteche, che sulle guide è paragonata a Rimini. Un posto dove probabilmente non andrò mai.

Le ore passano molto velocemente, la compagnia di questi studenti di Konya è molto piacevole e mi dispiace di non riuscire a capire quasi nulla di ciò che dicono perché ridono tanto. Nel frattempo il gattino mi si è addormentato sulla pancia. 

Si fanno le due passate e decido di ritirarmi dopo essermi scambiato l’indirizzo email con i due interpreti e passeggio verso l’hotel. La città di notte si è totalmente riempita di bancarelle e gente che mangia nelle piazze per festeggiare il ramadan e ciò mi rende più difficile ritrovare l’albergo, ma grazie al navigatore dell’iPhone alla fine ritrovo la via. Dalla pulizia dei bagni comuni e dal silenzio deduco di essere l’unico ospite dell’hotel, poco male… Mi faccio una lunga doccia e vado a dormire. Domani si riparte, per dove ancora non lo so.

La mattina dopo mi sveglio con una certa calma, faccio colazione insieme al simpatico albergatore (che mi offre ben 2 tè) e mi incammino verso la stazione. Penso che in fondo non sono mai stato ad Ankara… Le guide sono un po’ fredde quando parlano della capitale ma dicono anche che se si vuole vedere una vera città turca moderna è il posto migliore dove passare una giornata. Colgo al volo l’invito e arrivato alla stazione cerco di capire quando parte il treno. Purtroppo scopro che la prima (e unica) partenza per la capitale è alle 8 di sera e il viaggio dura 6 ore… Meglio di no. Il parcheggio dei bus è a circa 3 km, chiedo a un tassista quanto vuole e mi spara 25 lire (poco meno del prezzo del biglietto del treno da Istanbul a Konya)… Questo incontro rafforza la mia convinzione che i tassisti sono uguali in tutto il Mondo. Dopo aver insultato il tassista seleziono sul navigatore l’opzione “percorso a piedi”.

Arrivo all’Otogar zuppo di sudore ma soddisfatto per aver smaltito un po’ di grassi e tossine. Il primo pullman per Ankara è 20 minuti dopo, compro il biglietto e salgo. La strada fra Konya e Ankara offre un paesaggio molto brullo e di tanto in tanto si scorgono delle piccole cittadine di provincia. Prima di cominciare a vedere “Terminator” in turco, il logo del cementificio di Konya cattura la mia attenzione. Davvero ben fatto… Raffigura un derviscio danzante le cui braccia formano le iniziali KC (Konya Cementi).

Ankara, 11/8/2011

Sì. Ankara non ha proprio nulla di speciale. È una grande metropoli cresciuta a dismisura dove i grattacieli sovrastano le moschee. È trafficata e caotica ed è percorsa da lunghi stradoni che ricordano una tangenziale. Decido di non pernottare e di ripartire la notte stessa per Istanbul. Il bus service della compagnia con cui ho viaggiato mi porta alla stazione ferroviaria. Piccolo appunto: nelle città turche, piccole o grandi che siano, gli autobus non possono entrare ma ci sono degli immensi parcheggi a pochi chilometri dal centro. Le compagnie forniscono delle navette che portano i passeggeri nei vari quartieri oppure c’è il servizio pubblico. Guardando il grande otogar di Ankara, non riesco a non pensare ai giganteschi autobus che affollano il centro di Roma, al traffico che creano e a come devastano il manto stradale della città. Arrivato alla stazione, lascio lo zaino nel deposito bagagli, compro il biglietto per il treno notturno che mi riporterà a Istanbul dove nel tardo pomeriggio arriverà Daphne e mi faccio un giro per i quartieri vecchi, alcuni dei quali sono stati completamente ristrutturati, altri sono in rovina e sembrano delle favelas. Le case in stile ottomano sono comunque molto belle. Dopo una divertente passeggiata per uno stradone pieno di locali che offrono serate movimentate dalla musica di neomelodici turchi, mi incammino verso la stazione. Domani arriva Daphne, ancora non sappiamo dove andremo ma sono certo che questo viaggio continuerà a riservarmi emozioni. Mentre aspetto il treno nella sala d’attesa, in tv mandano una specie di telefilm comico turco, la gente che lo guarda sembra molto divertita. Io mi diverto invece ad osservare la pubblicità della CocaCola, ambientata in varie tavolate turche che aspettano tutte il cenno del capo famiglia (al tramonto… C’è il ramadan) per cominciare a mangiare e soprattutto a bere coca cola…

(dal diario di viaggio – Turchia 2011)

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